Varsavia, 20 maggio
Non sapevo cosa fosse un burnout finché non l’ho vissuto. In quel momento, non sapevo cosa dovevo o non dovevo fare. Volevo solo urlare e lasciare il mio lavoro — l’ONG che avevo creato e in cui lavoravo.
In Polonia, dove vivo, le ONG si fanno carico di molte responsabilità che lo Stato spesso trascura: istruzione, progetti di impatto sociale, con migranti o gruppi svantaggiati. Fanno un gran lavoro, ma spesso è davvero dura.
Le ONG qui vivono in una costante instabilità finanziaria. Ci sosteniamo grazie a finanziamenti e bandi, il che significa vivere sempre nell’incertezza. La nostra routine consiste nello scrivere i progetti in autunno, aspettare tutto l’inverno, ricevere la conferma in marzo e finalmente i fondi a maggio — quando ormai l’estate è incombente ed è tardi per iniziare a far qualcosa. Poi, in autunno, mentre ci sono i progetti da gestire, bisogna già scrivere le nuove proposte. È un ciclo estenuante che crea una condizione di stress perenne.
Lavorare nel non profit spesso sottintende una regola non scritta: che il tuo lavoro debba essere anche la tua passione, o addirittura il tuo hobby. Con questo tipo di mentalità, a volte finisci per lavorare gratis, o per pochissimo. Ed è pericoloso per la salute mentale.
Un giorno ti ritrovi ad avere 28 o 29 anni, vivi ancora con i tuoi genitori, sogni l’indipendenza, ma ti rendi conto all’improvviso che il sistema non è fatto per sostenerti. I contratti a tempo indeterminato sono rari, e la stabilità economica sembra irraggiungibile.
Molte persone iniziano a fare volontariato spinte da una forte motivazione. Anche io l’ho fatto. Con questo spirito ho fondato la Culture Shock Foundation, che si occupa di nuove tecnologie, arte, cultura e educazione non formale.
A un certo punto, ho realizzato che stavo per crollare. Prima ero piena di energia, creavo cose dal nulla, mi divertivo davvero. Ma sul lungo periodo, semplicemente, non poteva funzionare.
A un certo punto mi sono sentita sopraffatta, non riuscivo più a vedere una via d’uscita. Sognavo un lavoro che non mi richiedesse di pensare.
Col tempo, ho capito che le mie aspettative sulla vita e sul lavoro erano in qualche modo utopiche. Credevo di dovermi prendere cura dellз altrз prima di tutto. Non ho mai chiesto a nessunə di lavorare gratis, eppure lo facevo io.
Ho iniziato a informarmi sul burnout, cercando di comprenderne le cause a livello personale. Ma presto mi è stato chiaro che è anche il fragile mercato del lavoro in cui viviamo a giocare un ruolo fondamentale. E in un mondo pieno di crisi, il burnout non è più un’eccezione. Sta diventando la norma.
Alla Culture Shock Foundation sapevamo quanto le ONG fossero importanti per modellare la società civile e creare connessioni tra le persone. Ma conoscevamo anche il lavoro emotivo e fisico che viene richiesto a chi opera in questo settore.
Per questo abbiamo lanciato il portale “Burnout Aid” nel 2022. Abbiamo creato un test di autovalutazione per capire se una persona fosse a rischio o meno. Lo hanno compilato migliaia di persone.
All’inizio pensavamo che fosse un problema specifico della Polonia. La sorpresa più grande è stata scoprire che il burnout ha lo stesso volto anche in altri Paesi. Per dire, ora il test è in fase di traduzione in indonesiano, perché riflette anche la loro realtà.
La radice del problema sta nel sistema stesso — un sistema che continua a riprodurre dinamiche di potere e abuso. La gente ti dice “devi riposare”, ma non è così semplice. Ti dicono “prenditi cura di te”. Ma se non hai soldi e vivi costantemente sotto stress finanziario? Tutto riconduce sempre allo stesso punto: il sistema lavorativo in cui ci si ritrova.
Non tuttз riescono a sopravvivere a questo livello di stress. In questo senso, il burnout sembra essere diventato un ingrediente della vita moderna.
Eppure, ho ancora speranza. Vedo le nuove generazioni in Polonia che tracciano confini chiari. Lз adultз le criticano, dicendo che mancano di motivazione o della “cultura del sacrificio”. Ma io credo che stiano semplicemente imparando a proteggersi.
Forse saranno loro la prima generazione a capire come lavorare senza arrivare all’esaurimento. E per questo, credo che possano diventare una fonte d’ispirazione per tuttз noi.